E’ una questione di stile. Erano le prime ore della notte in Italia quando è arrivata la notizia della morte di Steve Jobs. I giornali tutti, tranne La Stampa, non hanno neppure fatto in tempo a mettere la notizia in prima pagina. Con il passare delle ore si sono susseguite le reazioni. Una parole riassume l’opinione che la comunità internazionale aveva del numero uno della Apple: era un visionario.
Per noi italiani un visionario è un folle, uno che non ha tutte le rotelle in testa. Per Jobs quello era un complimento. “Siate folli” aveva detto ai neolaureati di Stanford quando fu chiamato a raccontare la sua esperienza. La follia, quel tocco in più che il più delle volte distingue un buon professionista da un grande professionista.
Evidentemente non era un santo. La Apple come tutte le altre grandi aziende ha lati oscuri che prima o poi qualcuno dovrà svelare, ma era un visionario. Una persona che è riuscita ad aprire uno squarto di speranza nel futuro per molti giovani nel mondo intero. Ha insegnato che con perseveranza, fortuna e delle buone e chiare idee, gli obiettivi si possono raggiungere. Ha creato un’economia secondaria di livello. Ha messo in comunicazione mondi differenti ed ha abbattuto barriere territoriali che prima rendevano stati, uomini e aziende sole contro tutti.
Ovvio che il principale artefice di molte delle cose citate è il web, ma è anche vero che senza la semplicità dei prodotti di Apple il web sarebbe rimasto confinato in un computer spesso limitato negli accessi e nella libertà della rete. Jobs ha osato. Non si è accontentato di essere uno tra i tanti, è voluto diventare il numero uno.
Semplice nei messaggi. Semplice nello stile di vita. Semplice anche nel vivere la sua convalescenza. La morte è un bene diceva. E’ vero. Permette il ricambio delle idee e delle capacità. Oggi lui va via, prima o poi arriverà un altro Jobs in grado di convincerci che un futuro possibile esiste.