Riccardino è un romanzo conclusivo e per questo doveva essere speciale. L’ho atteso con trepidazione e l’ho letto tutto d’un fiato. È difficile parlarne senza rovinare il gusto della lettura a chi lo deve ancora iniziare, ma alcune cose si possono dire.
Camilleri nei suoi libri ha spesso raccontato vizi e virtù siciliani, in quest’ultimo romanzo racconta il malcostume e malaffare dell’intera società italiana. L’amaro in bocca che rimane leggendo le ultime pagine è frutto della consapevolezza che solo un intellettuale del suo calibro ha maturato lungo tutta una vita.
Si toglie però anche un sassolino dalla scarpa, quando in un passaggio racconta di non potersi permettere troppi riferimenti culturali perché lui viene definito semplicemente un autore di genere. È grazie a Camilleri che gli snob della letteratura hanno letto anche qualche giallo, noir o poliziesco e questa credo che sia una delle sue eredità.
Leggendo Riccardino per la prima non mi sono immaginato Montalbano con le sembianze di Zingaretti, questo perché il romanzo viaggia su due binari ben distinti: l’intreccio narrativo e il dialogo tra autore e personaggio da lui creato. Ecco, in questo romanzo per la prima volta si distinguono in modo netto il Montalbano del libro da quello della televisione e a permetterlo è lo stesso personaggio.
Non voglio togliere il gusto a chi non ha ancora letto il libro di farlo e quindi non vado oltre, ma un’ultima cosa la voglio dire ed è il personalissimo insegnamento che ho imparato leggendo tra le righe di questo romanzo (o almeno quel che io ho voluto capire): il personaggio vive di vita propria e alla fine fa quel che gli pare.
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