Oggi pubblico il primo capitolo del mio romanzo “Suicidio Culinario”: è una storia leggera e poco impegnativa che vuole regalare al lettore qualche ora di divagazione mentale e relax. In una Torino assopita dalla calura estiva si snocciola la vicenda umana e psicologica di un giovane scrittore che cerca con costanza, ma senza troppa insistenza il suicidio. Il protagonista di Suicidio Culinario è un giovanotto probelmatico che non riesce mai ad arrivare al nocciolo della tragedia, a bloccarlo sull’orlo della morte è la paura. La svolta della vicenda arriverà una sera in cui scoprirà guardando la tv che si può morire di Pesce Palla convincendosi di aver trovato la tecnica di suicidio perfetta. Una rivelazione che darà il via ad uno scontro tragicomico tra l’uomo e il pesce che sfocerà, a tratti, in una commedia dell’assurdo. SEGUE IL PRIMO CAPITOLO: DENTRO UNO SPECCHIO
1 – Dentro uno specchio
Dalla finestra si vedevano i balconi degli altri palazzi. In uno c’era una donna: mora con i capelli corti. Le sue gambe erano bellissime. Il polpaccio nudo che andava a congiungersi con la coscia era eccitante. Era chinata in avanti. Il sedere era sodo, tondo e invitante. Aveva un vestito nero e corto, tempestato di fiori gialli. Si intravedeva un pizzico della mutandina che indossava. Non portava il reggiseno. Il vestito era legato all’altezza del collo.
Il suo sudore si andava mescolando lentamente con il detersivo al limone. Con le braccia tese in avanti e la testa volta verso la finestra, lavava i piatti e guardava quella donna. Era un vizio, non un’ossessione, piuttosto una tentazione: osservare con brama quella femmina era come il telegiornale durante la cena. Dalla prima volta che aveva incrociato quella disinvoltura nell’indossare vestitini al limite dell’erotico aveva scritto trame mentali su ipotetici amplessi.
Più volte aveva immaginato la casa di lei. Era partito dai muri esterni per disegnare la piantina dell’appartamento, le finestre erano i suoi punti cardinali. La porta di ingresso doveva dare sul salone. La casa doveva essere piccola. Il tinello doveva essere a destra della porta principale, erano le finestre la chiave di tutto: quella più piccola doveva per forza corrispondere ad un ambiente piccolo, mentre quella grossa era sicuramente della camera da letto.
More e lamponi ovunque, la stanza per la notte doveva essere morbida, ricca di passione, dolcezza e oscurità. Raso dappertutto: quello infuocato delle lenzuola e quello tenebroso dei cuscini. Bianco, invece, il comò bombato in pelle, bianco l’armadio, bianchi i comodini e bianca la testiera del letto.
Fuori faceva caldo. Il fiumiciattolo era in secca. L’estate era torrida, i giornalisti dicevano che sarebbe stata la più calda della storia. Per le strade non si sentiva nessun vociare dei passanti, non si vedevano nemmeno i bimbi in bicicletta o al parco. Torino era deserta. L’ultimo avamposto ai confini della montagna sembrava essere stato abbandonato.
Il contorno della FIAT, privo di stimoli, industrie e possibilità, evidentemente si era trasferito a Borghetto Santo Spirito a lamentarsi della propria condizione in spiagge affollate da operai in cassa integrazione e pensionati impegnati a svernare.
Da piccolo Torino gli piaceva, ma quando sei bambino un posto vale l’altro perché quello che conta sono gli amici, i giochi, gli scherzi, la fantasia, la terra tra le unghie e anche il sangue sulle ginocchia. Poi basta, Torino non gli piaceva più perché era troppo stretta, troppo borghese, troppo ipocrita. Scappare? No, troppo banale, da perdenti, da radical chic, meglio morire di noia e senza lavoro, senza editori, ma con tanto disprezzo da scrivere senza voglia. E pazienza se si rimane imprigionati in una vita scelta solamente a metà.
Gli mancava quella mano fatta da rughe. Quel palmo ruvido e freddo. Quando era bambino, suo nonno era ancora giovane. I capelli erano scuri, gli occhiali sempre sul naso, a volte sorrideva, spesso aveva lo sguardo severo. Ricordava le sue braccia forti. Era un uomo di fatica.
Le mani di suo nonno erano fredde. Non erano mai cambiate. Aveva perso chili, capelli e severità, ma quelle mani erano sempre le stesse. Gli anni passavano e quella stretta, che quando era bambino lo conduceva ovunque e che lo guidava illudendolo di essere al sicuro, non la sentiva più. Doveva fare da solo. I bambini seguono, avvolti dentro cinque dita con il braccio teso e la testa che cade all’indietro, non si pongono alcuna domanda. Si fidano, osservano e conoscono il mondo.
Tutti prima o poi si sentono soli: la domenica pomeriggio, il sabato pomeriggio, il 25 dicembre, il 31 dicembre e anche il primo gennaio. Solo al bar non si è mai soli perché qualcuno ancora più solo pronto a fare compagnia si trova sempre.
Era tornato a scrivere usando il Times New Roman. Finiscono le epoche non quando se ne parla al passato, ma quando si esaurisce la dipendenza dai ricordi che ne scaturiscono. Aveva imparato a leggere per sentirsi meno solo. Il mondo di carta era il suo universo. Aveva scoperto luoghi antichi e visitato posti lontanissimi attraverso le parole dei suoi autori preferiti. Si era costruito giorno dopo giorno, libro dopo libro, una realtà tutta sua nella quale molto era permesso e poco era concesso. Però si sentiva solo.
Aveva cercato il consenso e l’accoglienza attraverso il conformismo. Era minuto. Non era alto. Aveva braccia piccole e senza forza. I suoi capelli erano strani: prima lunghi fino al fondo della schiena e tutti sporchi, poi corti quasi a far vedere la cute. I capelli sono come il pelo per i cani: bello o brutto, fa la differenza. Indossava cappelli: neri, grigi o a quadri. Tondi, con la visiera, con il bordo stretto o il bordo largo.
Il suo armadio era pieno di gilet, ne aveva di tutti i colori mentre il taglio era sempre lo stesso. Indossava le maglie con sopra i gilet; le camicie con sopra i gilet; i maglioni con sopra i gilet; a volte i girocollo con sopra i gilet.
Si era convinto che distinguendosi dalla massa, pur seguendola e inseguendola, sarebbe stato meno solo. Invece, un giorno passeggiando per la città, si rese conto che così non poteva essere.
Camminava ai confini del centro. Alla sua destra c’era la stazione di Torino Porta Nuova, alla sua sinistra le vie che portavano a piazza San Carlo e in mezzo, sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele, c’era lui. Passava ore ed ore a passeggiare per la città. Era convinto che servisse a scrivere meglio. Stava ancora aspettando di partorire quel romanzo talmente perfetto che lo avrebbe reso popolare, ricco e meno solo.
La gente affollava la passeggiata. Una coppia di turisti in bicicletta lo superò. Dovevano essere degli inglesi. Li sentì arrivare da dietro e si scostò per lasciare strada. A qualche metro di distanza un mendicante, il solito, chiedeva quattro spiccioli. Un cane era steso a dormire su una coperta a quadri gialli e rossi. Non gli aveva lasciato mai neppure una moneta.
Fu durante quella passeggiata che prese la sua decisione.
Uno specchio era poggiato su una piglia di cemento. Rettangolare ed in verticale, grosso. Sopra una scritta che per molti era una lezione di vita, per tanti invece solo un messaggio promozionale. Ognuno passando poteva specchiarsi. Chi per vanità, chi per abitudine, chi per curiosità e chi per necessità. Aveva visto farlo ad un barbone. Nonostante il caldo e l’afa quell’uomo indossava un cappotto ed un cappello scuro di lana. Pensò che probabilmente in qualche film lo aveva già visto.
Non aveva alcuna intenzione di fermarsi davanti a quello specchio. In casa ne aveva solo uno. Non era interessato a conoscere l’evoluzione del suo viso e del suo corpo. Preferiva valutarlo a spanne. Anche quel pomeriggio cercò di tirare dritto senza fermarsi, ma i suoi occhi in un riflesso involontario si catapultarono sopra quella superficie riflettente nello spazio di un secondo, forse meno. Si vide. Non era lui. Quello che aveva intravisto non gli era piaciuto. Gli altri, guardandolo, vedevano quello che aveva visto lui? La regola era: mettere in discussione tutto e tutti, tranne che se stessi.
Era come se si fosse catapultato fuori dalla sua carne e dalle sue ossa. Come se si fosse seduto a sorseggiare un caffè in uno dei tavolini del bar che si era lasciato alle spalle e vedendo passare il suo “IO” reale, avesse abbassato leggermente il giornale per guardarlo, di nascosto, senza farsi notare. Il contenitore che giudica il contenuto: come se il tonno giudicasse la scatoletta. Era dimagrito. Aveva la barba più lunga del solito. Il fisico era molliccio. Lo sguardo stanco e spento. Gli occhi avevano attorno un velo scuro. I pantaloni che indossava erano larghi e lunghi. Non era quello che credeva di essere.
Proseguì sui suoi passi. Camminò per parecchio tempo ancora. Era confuso. Si fermò quando il cielo divenne scuro. Aveva sete.
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