“Si stava meglio quando si stava peggio”; “ah quando c’era lui”; “il problema è che si è lasciato fregare dai tedeschi”; “almeno lui ha fatto le fogne e dato le pensioni”. Sono solo alcune delle tesi che ancora oggi si possono sentire su Benito Mussolini. Il racconto che vi propongo nasce da un luogo comune.
E’ mattina, siamo al capolinea in partenza del 4, un bus storico di Torino. Io sono seduto al mio solito posto, ho già in mano il libro e sto già leggendo. Una signora, anziana, sale e si siede ad una decina di metri di distanza da me e comincia ad argomentare sulla necessità di tornare ad un regime con a capo un nuovo “lui” perché in fondo quando c’era “lui” si stava meglio. Infastidito la fulmino con gli occhi, ma invece di alzarmi e spiegarle perché sta dicendo, a mio avviso, un mare di stupidaggini comincio a fantasticare. E fantastica oggi, che fantastico domani, fantasticando è nado il dittatore, un testo provocatorio da leggere con ironia..
Buona lettura..
Il dittatore
“E’ una meridionale, colpevole di assistenzialismo e furto nei confronti dei popoli del Nord” – disse il giovane gerarca mentre elencava con dovizia di particolari i detenuti al magnifico dittatore.
“E quello?” – ribatté il capo della compagnia puntando il dito verso un uomo seduto su una latta di vernice ribaltata.
“E’ un falso invalido, per una vita intera di giorno ha stretto con la destra il bastone di legno e di notte ballava la mazurca durante le feste di campagna”.
“Male, anzi malissimo” – commentò a mezza voce l’illustre ospite del Campo di Identificazione e Rieducazione – “Questo Paese va a rotoli. Ognuno agisce nel proprio interesse e non nell’interesse generale della collettività. Il regime lavora al massimo delle proprie capacità e con un’intensità che le forze alleate invidiano, ma questa gentaglia per troppo tempo ha avuto la possibilità di fare le proprie scelte e ha sempre deciso di andare nella direzione sbagliata. I miseri che ci hanno governato tra un regime e l’altro hanno lasciato loro troppa libertà. Il percorso di rieducazione che abbiamo davanti è ancora lungo: continuate così e vinceremo” – si era radunata una piccola folla attorno all’uomo che aveva fatto della penisola italica un luogo più sicuro e ordinato. La folta schiera di gerarchi e ultime ruote del carro che avevano fino a quel momento accompagnato la visita del Campo di Identificazione e Rieducazione era in silenzio adulante e ascoltante.
Ai margini di quella piazza immaginaria dentro la quale si stava svolgendo l’unico comizio autorizzato dal regime c’erano i detenuti, persone che erano state giudicate di intralcio morale ed economico alla nazione. Si trattava di veri e propri nemici della crescita e della stabilità politica ed economica. Evasori fiscali, falsi invalidi, ultras, fanatici, pelandroni, amanti dell’assistenzialismo e persino i pensionati venivano deportati nelle strutture del Nord, Sud e Centro Italia.
Il dittatore aveva voluto che il centro più bello fosse proprio nella sua città natale: aveva preteso che dal cortile dentro il quale i detenuti trascorreva i loro 10 minuti d’aria quotidiana si vedesse la punta della Mole Antonelliana; voleva che respirassero l’odore del cioccolato emanato dalle fabbriche che avevano preso il posto della FIAT; i detenuti avrebbero dovuto vedere i monti ed immaginare la libertà.
A Torino, quando non c’era ancora lui, si lavorava poco, ma non per colpa della FIAT che andava a produrre automobili in Serbia, piuttosto per colpa degli operai che invece di andare in fabbrica preferivano correre allo stadio a vedere la Juve. Sua nonna, quando era piccolo, gli diceva sempre: “Quelli non hanno voglia di lavorare, si mettono sempre in mutua e noi siamo costretti a pagare per loro. Quando c’era lui questo non succedeva mica..”. Il giovane dittatore era cresciuto all’ombra dell’esempio di “lui”, quello che quando c’era si poteva lasciare aperta la porta di casa di notte.
Il capo della gerarchia militare italiana era cresciuto in un Paese senza futuro, con una classe politica ridicola e, se possibile, con una classe dirigente ancora peggiore. Corruzione, spreco e ozio erano le parole chiave che portavano avanti la regressione culturale e alfabetica della società. L’istruzione non era più un fine, ma una barzelletta da raccontare. Nessuno leggeva e chi veniva sorpreso con un libro in mano diventava oggetto di scherno. Il dittatore aveva imparato presto a disprezzare le persone che lo circondavano.
“Quando c’era lui tutti stavamo meglio” – continuava a dirgli la nonna – “Pensava al popolo e non ai propri interessi: ha costruito case, scuole, ospedali, ferrovie, strade, acquedotti perché era suo dovere farlo”. Il dittatore, che aveva conosciuto “lui” solo sulle pagine dei libri di storia, si fidava ciecamente della nonna che gli aveva spiegato che sono i vincitori a scrivere i testi e che non si sarebbe mai dovuto fidare di quello che gli avrebbero detto i professoroni. E poi, in fin dei conti, non era mica falso che si stava meglio quando si stava peggio.
Il capo della gerarchia, grazie all’aiuto della nonna, completò gli studi raggiungendo ottimi risultati. Risultò essere il migliore del suo anno accademico, o almeno così raccontano le sue biografie; fondò nel giro di pochissimi mesi una delle più grandi compagnie di comunicazione virale online del Paese che si espanse come un bacillo in tutto il continente; conquistò la stima delle migliori italiche menti corteggiando con eleganza il loro ego ed innalzandole ad idoli di una mandria di pecore adulanti; fece tanti soldi da potersi permettere di acquistare il diritto di scegliere per i suoi sottoposti; scalò le vette della gerarchia; conquistò il potere; riscrisse le leggi; impose le sue opinioni; stabilì una rigida educazione che tutti dovevano osservare; disse a tutti cosa fosse giusto fare e cosa non lo fosse. Prese in mano il Paese e la vita dei suoi sudditi.
“E quella chi è? ” – domandò nuovamente il dittatore indicando una vecchietta intenta a cercare di mangiare una mela seduta su una panchina di legno.
“E’ una pensionata, colpevole di terrorismo e sfruttamento ai danni delle giovani generazioni” – rispose senza alcuna esitazione il giovane sottoposto esibendo con naturalezza il totale controllo che aveva del Campo di Identificazione e Rieducazione. La donna, che fino a quel momento aveva tenuto il capo chino, alzò la testa e fissò il dittatore dritto negli occhi: l’uomo simbolo della potenza italica nel mondo rimase inchiodato alle propria ginocchia, non si mosse di un millimetro e si rifugiò dentro il vano tentativo di nascondere tutta la fragilità che aveva rinchiusa dentro sé.
Con delle manine poco più grandi di un cucchiaio una zingarella prese la mela da quelle dell’anziana signora: “perché piangi?” – domandò la piccola nel mentre che cercava di rendere più morbida la polpa del frutto sbattendolo contro la superficie piatta della panchina. La pensionata con gli occhi immersi di lacrime continuava a fissare il dittatore che passo dopo passo si allontanava sempre più. La bambina smise di battere la mela solo quando vide la mano tremante della donna, allora si sfilò lo scialle di lana dalle spalle e lo poggiò su quelle dell’anziana fingendo di credere che quel tremore fosse dovuto al freddo dei pomeriggi torinesi, poi le chiese nuovamente: “nonna, perché stai piangendo?”.
Le rughe dell’anziana signora andarono a toccare delicatamente il viso della zingarella, i suoi occhi si vestirono di dolcezza e le sue labbra rivelarono: “Piango perché ero convinta che anche la giustizia facesse delle eccezioni“.
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