In memoria

Oggi faccio uno strappo alla regola. Negli ultimi mesi, e chi ogni tanto capita su questo blog lo avrà notato, si è riaccesa dentro di me la fiamma del racconto breve. Questo che vi propongo oggi l’ho scritto per un concorso di una casa editrice romana che due giorni dopo aver mandato il testo mi ha contatto per chiedermi 100 euro per la pubblicazione su una loro rivista.. ovviamente dell’esito del concorso non ho saputo più nulla.. buona lettura!

In memoria

Spesso piove nei tristi ricordi.

Dal parabrezza frantumato dell’auto ribaltata riusciva a vedere la luna che era piena come non l’aveva mai potuta ammirare e talmente vicina da quasi riuscire a credere di poterla toccare, se solo fosse stato in grado di muovere il braccio.

Gli pizzicava il naso. L’odore dell’erba, appena tagliata o fradicia di umidità, lo infastidiva a tal punto da togliergli il respiro. La pioggia continuava a cadere incessantemente sul suo viso. La guancia era compressa dal peso del corpo contro la fanghiglia. Come il vino uscendo svuota la damigiana, la sua anima stava fuggendo goccia dopo goccia dal suo essere.

Aveva ancora in bocca il sapore del caffè di Ornella, quello che gli preparava ogni mattina prima di andare a lavorare. Era una consuetudine così antica che ormai aveva smesso di contare il numero degli anni durante i quali si era ripetuta. Continuò a fare finta di dormire sin dalla prima mattina in cui divisero il letto e per tutta la vita amò credere che lei pensasse che dormisse veramente. In realtà gli piaceva ascoltare i gesti di Ornella; guardarla con la coda dell’occhio senza muovere di un solo millimetro la testa; annusare nell’aria il suo profumo, quello della notte e quello della mattina.

Che era metodica fino all’esasperazione, fu la prima cosa che le disse quando ancora non avrebbe potuto immaginare che quasi tutti i suoi risvegli sarebbero cominciati con un lenzuolo stropicciato scostato delicatamente, le sue gambe nude piegate leggermente, la mutandina rosa o azzurra stretta sul sedere, lo spazzolino in bocca tenuto con il braccio destro e il gomito troppo alto, la caffettiera sul fuoco e quell’aroma del caffè di Ornella.

Non aveva ancora finito di frequentare la scuola elementare che suo padre gli aveva già insegnato a fare il nodo alla cravatta. Incrociando il tessuto, facendolo passare sotto il lembo più lungo, avvolgendo il nodo in un raviolo immaginario e chiudendo con forza quella cravatta per cinque giorni su sette, sabati e domeniche escluse, si vide invecchiare davanti allo specchio. In piedi a guardare fuori dalla finestra del tinello sorseggiando il caffè di Ornella aveva pensato spesso a tutte quelle rughe che aveva visto comparire una ad una sul suo viso.

Una mattina, dopo un amore dolce e raffinato, Ornella, facendo leva sulla mandibola con l’indice e il pollice, aveva cominciato ad osservare i mutamenti dell’età. In una danza di smorfie speculari si continuavano a conoscere ogni giorno. Quei solchi attorno agli occhi che circumnavigavano i suoi zigomi li aveva difesi gelosamente dalle insidie della monotonia. “Se ci sono è per colpa tua” – le disse mentre la stringeva forte al petto – “E’ perché mi hai reso troppo felice”.

È amaro il gusto della terra. In una frazione di secondo ne ebbe piena consapevolezza. Quella curva era una “esse” neppure troppo insidiosa in mezzo a due grandi rettilinei. La strada era costeggiata da ambo i lati da cipressi. Solo la luna accendeva l’asfalto. Raramente in lontananza si potevano vedere i fari di qualcuno che stava giungendo dalla direzione opposta.

All’imbocco della prima curva si poteva arrivare tranquillamente in quinta, al massimo della velocità. Il tempo per abbattere la frizione, scalare in quarta e ribattere sull’acceleratore c’era tutto. Poi con forza il palmo della mano mancina a spingere lo sterzo verso sinistra, la mano destra fissa sul cambio per tenere il corpo in tensione e, dopo aver preso di nuovo un po’ di velocità, tutto al contrario: il palmo della mano destra a spingere nel senso opposto e con la sinistra a tenersi in equilibrio sul portellone dell’automobile. Un brivido lungo la schiena, i polmoni che si contraggono, la gola che si chiude.

Una frazione di secondo per la quale vale la pena vivere e morire. Poi le ruote perdono aderenza e slittano, l’automobile precipita verso l’esterno della carreggiata e si infrange contro il tronco di un cipresso, la capotta si squarcia come avresti voluto fare per una sola frazione di secondo con la monotonia.

Senti il rumore sordo delle costole che si spezzano e soffri come un cane mentre si conficcano dentro il polmone. La mascella è fratturata in tre punti, è per quello che non riesci ad aprire la bocca e a sputare la terra che poco alla volta ti riempie la bocca.

La luna adesso era opaca e distante. Ornella la sera prima non aveva avuto il tempo di mettergli insieme il vestito che avrebbe dovuto indossare il giorno dopo. Lei non gli avrebbe mai permesso di andare in giro con quella cravatta. Era una regimental verde, blu e gialla che lo invecchiava di qualche anno. “Sempre il solito pasticcione” – avrebbe pensato Ornella vedendolo steso sul tavolo dell’obitorio. In tanti anni di matrimonio la sua fortuna era stata lei che gli aveva dato un tocco di gusto nel vestirsi, regolarità nell’alimentazione e che gli raccomandava sempre di andare piano in macchina.

In lontananza cominciava a sentire la sirena dell’ambulanza che stava arrivando per soccorrerlo, ma era consapevole che ormai fosse troppo tardi. Avrebbero fatto in tempo a constatare l’ora del decesso e a mettergli solamente un telo bianco addosso.

Ornella e la micia si svegliarono di colpo nel bel mezzo della notte, un tuono potente come una cannonata spezzò il silenzio della stanza e infranse il sogno che stava sognando. Spalancò gli occhi e serrò i denti. Fuori c’era il temporale. Con un gesto istintivo allungò la mano per cercare conforto nel corpo del compagno che pochi istanti prima aveva sognato, ma Riccardo non c’era. Non era ancora rincasato. Guardò l’orologio con una certa distrazione che divenne però preoccupazione quando si rese conto di quanto fosse tardi.

Sul tavolo della cucina c’era ancora il piatto con la cena che gli aveva lasciato prima di mettersi a letto. Riccardo non avrebbe mangiato una volta rincasato, ma avrebbe acceso lo stesso il fornello per il caffè e prima di mettersi a dormire avrebbe fumato una sigaretta. La mattina successiva Ornella avrebbe trovato, come spesso accadeva, il piatto dentro il frigo e la caffettiera da smontare.

Appoggiata alla finestra, con la luna alle spalle che la illuminava, fissava il posto a sedere che era di suo marito. Quello che aveva visto occupare puntualmente per quasi tutte le sere dei suoi ultimi vent’anni. Ornella aveva capito quanto Riccardo fosse pigro il giorno che afferrando la sedia dai pioli dello schienale aveva annunciato trionfalmente che da lì non si sarebbe mai più mosso. Non riuscì mai a comprendere se fosse stata una minaccia o un intento, ma mantenne la parola data fino al giorno in cui non la abbandonò per sempre.

Nel sogno era dentro la casa di quando era bambina. I soffitti della sua cameretta erano alti e i muri erano molto spessi. Sentiva una forte sensazione di calore. L’unica finestra, quella che dava sul corso principale della città, era chiusa e le persiane erano serrate.

Nel sogno dormiva con il naso all’insù priva di ogni sensibile percezione. Immobile come un bambino esausto. Con la bocca leggermente aperta e il naso chiuso.

Nel sogno a svegliarla fu il suono del campanello di casa quasi impercettibile, ma amplificato dall’abbaiare insistente e indolente del cane che aveva quando era piccina. Durante il sogno si stupì per quella visita inaspettata e accorse alla porta dell’ingresso con crescente curiosità.

Nel sogno vide arrivare Riccardo con in mano due valige ed una borsa sotto il braccio. Indossava quella buffa cravatta regimental che lo invecchiava di qualche anno.

“Sono venuto per non andarmene mai più” – gli disse Riccardo dal fondo del balcone mentre sorridendo stava chiudendo il cancello. Nel sogno suo marito sembrava felice come non l’aveva mai visto prima. Il suo sorriso non era mai stato tanto largo e tanto bianco. Poi arrivò alla porta di ingresso, mise piede in casa, poggiò le borse sotto la fotografia della bimba indiana che pescava e andò verso la cucina, ma quando nel sogno Ornella lo inseguì per chiedergli perché aveva con sé tutte quelle valigie, Riccardo era svanito.

Ornella non riusciva a togliersi dalla testa quella promessa che il marito le aveva fatto in sogno: “Sono venuto per non andarmene mai più”. Fu in quel momento che suonò il campanello di casa. Ci sono promesse e sogni che non si dimenticano per tutta la vita.

@gioeleurso1 – redazione@tempestadicervelli.com

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